Il concetto d’infamia è stato collegato dal Guicciardini alla vita di Clemente VII, ‘convitato di pietra’ di una mostra che ho curato con Carlo Francini e Sergio Risaliti. La mostra è dedicata a importanti e famosi artisti di oggi: Marco Bagnoli, Domenico Bianchi, Remo Salvadori. Le loro opere vengono a creare un altro tracciato di suggestioni e rimandi in quello stesso Palazzo Medici che Clemente VII volle ornare secondo la sua visione. La figura del papa mi ha fatto pensare a buttare giù questo testo, che riguarda la vicenda di Giulio de’Medici. Materiale di lavoro da sviluppare più avanti
Come molti giovani del suo tempo Giuliano di Piero de’Medici- padre del futuro Clemente VII- affettava i gran valori del mondo cavalleresco, anche se in famiglia si sognava per lui una più ‘paciosa’ porpora cardinalizia. Nella famosa giostra di Santa Croce del gennaio 1475 si dovettero però impiegare cavalli da torneo importati dalle Romagne, e pochi furono i campioni fiorentini in grado di partecipare a uno spettacolo che mimava la guerra così come la raccontavano i poemi cavallereschi. I tempi stavano cambiando. Di questo bene si accorsero gli italiani nel 1494, quando Carlo VIII di Francia calò sulla penisola con un esercito potentissimo, ‘mostro’ dotato persino del primo parco di artiglieria campale. Piero di Lorenzo tentò di evitare il saccheggio di Firenze, fu infamato come traditore, poi per sempre come fatuo e inetto. Era un’epoca diversa dalla nostra, piena di quelle che oggi vediamo come ossimori e contraddizioni, in più tempo d’incertezza nella Fede. Il male era rimedio al male. Condottieri quali Giovanni de’ Medici mettevano tranquillamente all’asta la lora vita. Rischiavano il bene supremo fuori della grazia di Dio. Artisti della caratura morale di Michelangelo passavano dal lavorare per i Medici a servire i loro nemici. Si vendevano i cappelli cardinalizi, come ebbe a registrare l’agostiniano Martin Lutero. Giulio de’ Medici, figlio illegittimo dello sciupafemmine e ‘cavaliere’ Giuliano, oltre a essere morigerato e aver preso sul serio il suo ruolo di presule, fu anche e innanzitutto un buon politico per Firenze. Firenze fu governata bene dal cardinale; ed egli volle dimenticare l’assassinio del padre, gli odi antichi verso la famiglia. Per lui il Machiavelli scrisse il Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze; e in effetti il cardinal Giulio sperava d’ ingrandire il parlamento per favorire lo sviluppo dello stato tramite l’impegno delle classi meno abbienti. Le arti rifiorirono. Di nuovo Palazzo Medici divenne dimora splendida, ornata da statue moderne di Giovan Francesco Rustici e di Baccio Bandinelli. L’Orfeo che ammansisce Cerbero, scolpito dal Bandinelli quando Leone X sedeva sul soglio di Pietro e Giulio era Governatore di Firenze, rappresentò la pace e la concordia riportata alla Repubblica dai due ecclesiastici della casata. Poi Leone morì. Giovanni de’Medici mise a lutto le proprie insegne. Gli ottimati a Firenze vollero eliminare Giulio. Egli sventò la congiura, quindi entrò in conclave come candidato di Carlo V e divenne papa nel 1523. Quando si pensa a un papa è difficile oggi immaginare il Vicario di Pietro come una figura coinvolta direttamente in guerre sanguinose. Del resto, dal Cinquecento in poi tutta una letteratura anti- cattolica ( e forse anti-italiana) ha letto le vicende di Clemente VII come la punizione divina alla decadenza della Chiesa o il castigo per una politica di tentennamenti, di slealtà verso un grande disegno europeo.
Un uomo che conobbe Clemente- il vescovo Paolo Giovio- rimase impressionato dai lanzichenecchi imperiali, quelli che divennero i più feroci nemici della Chiesa: tanto da descrivere il terribile effetto in battaglia e in parata di quelle bande di aitanti contadini fattisi soldati per motivi di denaro e spirito d’avventura. Questa gente della Germania meridionale e dell’Austria, infamata poi e sempre come nuova orda di barbari dopo il sacco di Roma, costruiva muri di picche che- mossi a suon di tamburi e pifferi a passo di cadenza- risultavano forza invalicabile. Un’ arma multiforme a schiacciare tutti i nemici, iniziando dai più ‘scafati’ colleghi svizzeri. Come avvenne a Pavia nel 1525, cominciando da quella battaglia la sfortuna estrema del secondo papa Medici, la sua infamia. Non si trattava di cavalieri o di eroi come Roland, Tristano, o il più nostrale Morgante (che tutti i Medici avevano bene a mente). Nelle varie ‘bandiere’ dei lanzi erano arruolati tutti quelli che passavano un esame di prestanza fisica, e prima di ricevere il soldo d’ingaggio, i nuovi soldati ascoltavano un regolamento di disciplina e giuravano fedeltà solo all’imperatore, committente diretto dei loro colonelli. Talvolta i loro capi scendevano a combattere picca in mano con i semplici lanzi, come accadde alla Bicocca nel 1522, quando Georg von Frundsberg (che poi fu malato a Pavia) lottò spalla a spalla assieme ai suoi uomini. Dal 1519 i lanzi avrebbero servito solo il Sacro Romano Impero, con l’eccezione di una banda di rinnegati, la Banda Nera, guidata da Georg Langenmantel, che a Pavia fu castigata e infamata dagli uomini del Frundsberg assieme a tutti gli altri nemici di Carlo d’Asburgo: vanagloriosi e ricchi gendarmi francesi, troppo superbi mercenari svizzeri, e altri alleati italiani di Francesco I. A rileggere nelle cronache i nomi dei protagonisti della campagna del 1524-1525 culminata nella prima battaglia moderna- quella di Pavia appunto-ne troviamo di leggendari: Fernando d’Avalos, Giovanni de’ Medici, Carlo di Borbone, persino Jacques de Chabannes, signore de La Palice, su cui dopo Pavia girò una famosa e proverbiale canzonetta militare: “Monsieur de La Palice est mort/ Mort devant Pavia/ Alais! S’il n’etait pas mort/ Il serait encore en vie”. Nel dicembre 1524 Francesco I e Clemente VII avevano siglato un accordo segreto, il cui infamante segreto si venne però a conoscere dopo la sconfitta di Pavia, quando Fernando D’Avalos fu avvicinato da messi papali che lo dovevano convincere a sostenere un’alleanza contro l’imperatore suo padrone. Difatti, invece di muovere il pontefice a prudenza, il timore dello strapotere imperiale in Italia condusse papa Clemente a spalleggiare il ripudio del trattato di Madrid da parte del sovrano francese nel maggio 1526. Evento che determinò la necessità da parte di Carlo V di punire l’alleanza malefica tra Chiesa e Francia. Si giunse così al sacco di Roma del 1527, persino alla perdita di Firenze: a tutte quelle umiliazioni che portarono a cancellare il buon nome di Clemente VII agli occhi dei posteri.
Firenze, cacciati i fallacissimi rappresentanti dei Medici, barcollò tra varie incertezze. La ribellione del 1527 punì soprattutto le promesse non mantenute da Clemente d’imprimere maggiori libertà alla costituzione. Gli arrabbiati infamarono e poi distrussero le immagini in cera di Leone X e Clemente VII, che si vedevano insiema ad altre belle effigi tra i “voti” dell’ Annunziata. Quei fantocci in cera, distrutti nel tempio dedicato alla Madonna, segnarono quasi la stessa cadenza di furore e di violenza portata dai lanzichenecchi a Roma. Roma, che per molti di quegli ex contadini era la nuova Babilonia, la città del papa Anticristo. Ovviamente una parte dei saccheggi del 1527, di quell’estreme violenze furono mosse da semplice umana ferocia; altre dalla rivalsa di uomini troppo vessati dai loro preti, stupefatti dalla ricchezza dell’Urbe, ‘verminanio’ di grassi ed effeminati cardinali; altre erano invece giustificate nell’attacco più ficcante portato da Martin Lutero alla Chiesa romana. Giravano da tempo testi come il Passional Christi und Antichristi, inciso nel 1521 e illustrato da Lucas Cranach, dove le fattezze di un papa gaudente e immorale erano quelle riconoscibili di Leone X.
Il sacco di Roma dissacrò la Chiesa, la stuprò come la Puttana di Babilonia si meritava: molti così dissero in Germania, alla corte di Carlo V, persino in Italia. Per i fedeli di Lutero lo staffile di Dio puniva e purificava le imperfezioni portate all’ordine divino dal clero romano. Finiva anche lo spirito più solare dell’arte italiana. Ne iniziava anzi una diaspora. Dopo di che Clemente VII dovette rappacificarsi con Carlo d’Asburgo. Scioccato dal dolore fece a tempo a commissionare a Michelangelo il Giudizio Universale, poi scomparve lasciando dietro di sè immagini di contrizione e di riscatto nelle sole sofferenze dell’anima. L’inclemenza dell’ordine cosmico annientava i peccatori. La misericordia divina rendeva giustizia ai sofferenti, agli infamati.
L’intelligenza di quel pontefice, la sua grande moralità, persino il suo illuminato mecenatismo in molti campi della cultura coeva dalla musica, alla letteratura, alle arti visive passò in secondo ordine rispettò alle sue sfortunate scelte politiche.
Di ciò crudelmente scrisse il Berni: “Un papato composto di rispetti/ Di considerazioni e di discorsi;/ Di più, di poi, di ma, di se, di forsi,/ Di pur assai parole senza effetti”.
D’altra parte, pur nella sua goffaggine, potremmo leggere in quel disperato tentativo di far breccia contro gli imperiali, il sogno di creare un’ Italia libera dagli stranieri e unita attorno allo Stato della Chiesa.
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